Goodbye 2020
L’anno nero, l’annus horribilis, il ground zero della ristorazione nazionale – e non solo – questo 2020 in congedo. Nel calderone indistinto dei potenziali untori sono caduti tutti: buoni e cattivi, bravi e incapaci, onesti e furbi, capitani di lungo corso e parvenu del mondo di mezzo, fedine immacolate e avanzi di galera, carriere consolidate e second life dell’ultima ora.
Si è fatto di tutta l’erba un fascio, raccolto frettolosamente con l’alibi del codice Ateco, senza analizzare e fare i dovuti distinguo. Sono stati messi sullo stesso piano gli spritz annacquati dell’happy hour e il pairing, i carpacci affumicati del discount e la freschezza a peso d’oro del mercato del pesce, i buffet e gli amuse bouche, lo street food ripassato nel micro-onde e le marinature, le fermentazioni, le cotture lente e lunghe, i fondi bruni e i brodi. Sono stati messi davanti allo stesso plotone di esecuzione colpevoli e innocenti, evasori e virtuosi, i tavoli sociali e quelli ben distanziati, le mascherine sotto il naso e quelle perfettamente indossate, le cloache e i servizi perfettamente igienizzati, la scortesia e i sorrisi, la sciatteria e l’attenzione al cliente, il carpe diem e i progetti, il tirare a campare e gli investimenti, la miopia e la visione.
Progetti, investimenti, visione. E’ su questi concetti, ignorati da chi dovrebbe sapere, capire e discernere, che si giocherà la partita del futuro, che si reggerà l’altalena delle riaperture, che si creerà o si ricostruirà l’empatia con una clientela spaventata e confusa, che si stimoleranno la curiosità e l’interesse della comunicazione di settore, che si guadagnerà e ci si garantirà la longevità.
E’ su questi concetti che si è concentrato il mio girovagare per ristoranti di quest’anno – quando e dove è stato possibile – per capire, interessato come sono da sempre – si sa – agli aspetti non meramente gastronomici, chi e come sopravvivrà a questa tempesta, a questa prova di resistenza, a questo piegarsi come giunchi finché non è passata la piena.
I piatti selezionati (a malincuore, considerato il clima) appartengono a cuochi, squadre e imprese che non si sono arrese; che hanno portato avanti comunque progetti; che hanno investito in ricerca, formazione e personale; che hanno avuto il coraggio di guardare avanti, gettando mente e cuore oltre l’ostacolo. Sono piatti forti, identitari, italiani, profondamente legati a radici e culture dalle quali abbiamo finalmente capito che non possiamo più prescindere, ambasciatori di quel nuovo artigianato produttivo nazionale che da quelle radici e da quelle culture è ripartito per recuperare e rigenerare valori che stavamo rischiando di perdere. Sono piatti che non si vergognano di essere italiani, semplici e comprensibili, ma che dell’italianità, della semplicità e della comprensibilità vogliono essere vessilli in un mondo che forse non sarà più come prima, ma comunque e sempre a nostra immagine e somiglianza.
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